Apple sui giornali: purché se ne parli?
10/03/2006 22:00 CET
Nella sezione economica Giancarlo Radice si sofferma su un argomento tanto caro agli utenti di PC: la sicurezza.
E’ noto che la carta stampata non può essere così rapida a fornire le notizie ai lettori quanto altri mezzi come per esempio il web.
L’allarmismo che si legge su questa colonna, che prende tre quarti dell’altezza della pagina 35 del Corsera, appare quanto meno demodè.
Si legge: "Sono stati individuati due worms […] destinati a diffondersi nei sistemi Mac attraverso il software di messaggeria istantanea iChat o il collegamento Bluetooth. Di più. Secondo quanto rivela il Wall Street Journal uno studente tedesco ha anche scoperto una serie di «buchi» nel sistema Os X che potrebbero facilmente permettere a un hacker di installare virus attraverso il browser Safari. Insomma, anche Apple sembra ormai vulnerabile come l’odiato Windows di casa Microsoft".
Spolverare un argomento, con una descrizione approssimativa "quanto basta" e non del tutto condivisibile sulle parti coinvolte, al contempo nuovissimo per Apple, ma già d’archivio per tutti i suoi utilizzatori, è diabolico.
La sicurezza per Apple è da sempre stata una bandiera e forse oggi solo lo 0,1% di tutti i creatori di virus o altro software maligno, si dedica alla piattaforma Mac.
Il sistema operativo di Apple è di gran lunga il più sicuro tra quelli che possono montare i computer attuali, il fatto che periodicamente Apple rilasci degli aggiornamenti è risaputo e utile, ma qualche settimana fa gli sviluppatori di Cupertino si sono dedicati a curare un problema abbastanza inusuale.
Sì, era un malware per Mac OS X che poteva far installare software non richiesto dal padrone del Mac, come descritto da Secunia. Facile supporre che al Corsera non interessi, ma per la cronaca completa diciamo che l’oggetto era stato battezzato Leap.A.
A fine febbraio (sono passati dieci giorni da allora!), con il Security Update 2006-001, Apple andava a porre rimedio alle problematiche eventualmente attivate da software distribuiti per danneggiare i computer altrui.
Non si discute il fatto che anche il Mac OS X sia attaccabile, quello che è da valutare attentamente è il "quanto".
Allora perché non dire che dopo pochi giorni, forse ore, Apple aveva già posto rimedio?
Macché, si tirano in ballo McAfee, Sophos e Symantec (che non si scrive Symantech), noti dottori dei virus dei computer, che accertano la falla di sicurezza su Mac OS X.
E perché non condire questa ennesima operazione di terrorismo informatico, che non sfigura accanto i vari "vi ruberanno tutti i soldi della carta di credito se comprerete su Internet" o "via email vi cancelleranno tutto l’hard disk", con un po’ di fantasia sull’iPod?
Ecco il finale dell’articolo a segnare presagi tetri: "ad attirare perfidi disegni di qualche abile pirata potrebbe essere la connessione fra l’iPod e l’iTunes, il sito Apple da cui parte la distribuzione (a pagamento) di file musicali […] il miracoloso connubio iPod-iTunes si troverebbe degradato al rango di tutti i siti illegali di scambio di musica, letteralmente infestati di bruttissimi «bachi»".
Poi, girando la pagina, ecco un altro articolo su Apple, anzi sull’iPod.
Con le auricolari bianche nelle orecchie si produce di meno o si produce meglio?
Il pezzo di Maria Teresa Cometto descrive come la "moda" dell’iPod sia al centro di un interrogativo amletico per le aziende americane: permettere o no di usare l’iPod in ufficio?
"L’ultima diavoleria dell’hi-tech", come lo definisce chi forse non sa che il player musicale di Apple si rinnova sul mercato dal 23 ottobre 2001, non è propriamente solo un "un mezzo di puro divertimento e relax", c’è anche chi ci infila appunti, rubriche telefoniche, mappe geografiche, fotografie di un catalogo, per non parlare di audiolibri e, naturalmente, musica o video.
Potrebbe tranquillamente essere un compendio al lavoro l’iPod, ma consideriamolo come un puro e inerte player di MP3.
Il dibattito è antico, farà bene o farà male ascoltare musica mentre si lavora, studia, progetta?
Quanto all’accenno alla "schiavitù", come spesso succede, nell’articolo poi non si trova traccia di prova.
Quante aziende si preoccupano invece di verificare quante delle ore passate davanti ad uno schermo di computer, il dipendente stia realmente lavorando e non navigando tra siti più o meno presentabili ai colleghi, che stia passando il tempo con giochi flash in rete oppure con il bilancio della società, che stia spedendo una circolare al magazzino piuttosto che le foto delle vacanze all’amante del terzo piano?